Il continuo stupore dei mercati per la resilienza dell’inflazione e la considerazione troppo parziale dei fattori alla base dell’aumento dei prezzi sul lungo periodo rappresentano le componenti di un trend duraturo. In questo contesto, la gestione obbligazionaria attiva resta sicuramente una componente importante della gestione diversificata.
Il ritorno dell’inflazione, dopo oltre 40 anni di assenza, sta seminando il caos sui mercati. Gli operatori di mercato intenti alle grida nella “corbeille” nel 1980, ad oggi non sono più così numerosi dietro ai loro schermi. Si ricorderanno ancora della struttura degli anni che hanno spinto l’inflazione statunitense e quella europea fino al 15%?
Per tutti coloro che credono ancora che il passato possa aiutare a comprendere il presente e gli eventi futuri, l’ancora di salvezza è costituita solo da buoni libri. Questi ultimi consentono di comprendere che gli anni 1965-1980 sono ricchi di insegnamenti, poiché hanno portato a un contesto di inflazione innescato da uno shock petrolifero, avvenuto dopo un lungo periodo di grande calma sul fronte dei prezzi; lo stesso scenario attuale.
Tuttavia, non è detto che sin d’ora gli operatori finanziari intendano considerare l’impennata dei prezzi post-Covid come preludio a un vero e proprio ciclo inflazionistico. Le loro aspettative di inflazione negli Stati Uniti prevedono infatti un calo al 2,75% a metà del 2023 e una successiva stabilizzazione a circa il 3% negli anni successivi, alla stregua di un’impennata fine a sé stessa come si è registrata due o tre volte negli ultimi quattro decenni.
Bisogna però tenere conto dei fattori inflazionistici strutturali: aspetti demografici (meno risparmiatori a livello globale, meno giovani Cinesi da inserire ad ogni costo nel mondo del lavoro), commercio (calo del peso del commercio globale nel PIL e sua disinflazione competitiva, possibile fine della flessione dei prezzi nel commercio online), aspetti sociologici (preferenza per l’etica a scapito dell’efficienza immediata), oltre che transizione energetica.
Queste forti inversioni di tendenza tenderanno a rendere l’inflazione resiliente. Pertanto, alcuni rialzi dei tassi di riferimento da parte delle Banche Centrali consentiranno realmente di abbattere l’inflazione?
Ad oggi, è inverosimile che si possano prendere decisioni analoghe a quelle prese nel 1980 negli Stati Uniti, dove Paul Volcker, Presidente della Federal Reserve (Fed), rialzò i tassi di riferimento al 20% in un momento in cui l’inflazione stava scendendo a circa il 10%. In quello stesso anno, il Presidente Ronald Reagan pose fine alla spirale prezzi/salari bandendo 11.400 controllori di volo dal servizio pubblico, a causa di uno sciopero illegale proclamato per ottenere un aumento salariale. Fu anche necessario che, a seguito dello shock petrolifero del 1973, gli enormi sforzi in termini di investimenti, compiuti dal settore petrolifero statunitense per sviluppare la produzione locale, iniziassero a conseguire risultati.
Analogamente, molti operatori di mercato ritengono che la cessazione delle ostilità in Ucraina porrebbe rapidamente fine all’aumento dei prezzi dell’energia. Tuttavia, a meno che si possa prevedere la scomparsa di Vladimir Putin, non è certo che le fonti di approvvigionamento precedenti possano tornare disponibili in tempi brevi. Per quanto riguarda le soluzioni alternative, non sono ancora pronte per essere impiegate, mentre il calo degli investimenti nei combustibili fossili da quasi dieci anni a questa parte ne sta necessariamente aumentando il costo. L’esistenza della crisi energetica, nonostante la Cina si trovi in fase di stallo, ne conferma la solidità.
Infine, la conclusione della crisi sanitaria è stata il catalizzatore dell’inflazione, con la domanda fortemente alimentata dai massicci sostegni fiscali negli Stati Uniti e l’offerta ostacolata dal blocco delle catene di produzione. Durante la crisi, il consumatore statunitense è riuscito ad accumulare un surplus di risparmi pari al 12% del PIL americano, il che lo pone in posizione di forza nelle trattative salariali con i datori di lavoro (+7% di incremento medio annuo). Quando l’inflazione inizierà a diminuire, la crescita dei salari si ridurrà più lentamente generando guadagni salariali reali che sosterranno la crescita e ridurranno la disinflazione.
La recessione, necessaria per riassorbire l’aumento dei prezzi non è quindi un obiettivo immediato. Inoltre, l’attuale Presidente della Fed, Jerome Powell, non ha probabilmente terminato di stupire i mercati con la sua politica restrittiva.
Il continuo stupore dei mercati per la resilienza dell’inflazione, che nelle analisi è stata ritenuta a lungo come “ transitoria “, e la considerazione troppo parziale dei fattori alla base dell’aumento dei prezzi sul lungo periodo, rappresentano le componenti di un trend duraturo. Inoltre, dato che attualmente il livello di tolleranza al dolore è quello che è, si può essere quasi certi che le Banche Centrali si affretteranno a tagliare i tassi di interesse non appena l’inflazione core inizierà a diminuire, con il rischio che sia troppo prematuro.
Il ritorno dell’inflazione alimenta il ciclo economico attraverso gli interventi che impone alle Banche Centrali. Questo contesto, sconosciuto a molti operatori di mercato, è destinato a favorire le gestioni attive. L’inflazione duratura è un’ipotesi grave, che ci induce a strutturare i nostri portafogli diversificati in linea con il ciclo economico.
Da un lato, l’esposizione ai mercati azionari è strutturata sulla base di una forte esposizione ai titoli difensivi, in grado di ammortizzare le fasi di ribasso e, dall’altro, ai titoli che possono trarre vantaggio dalle pressioni inflazionistiche, normalmente negative per la maggior parte dei titoli azionari. L’esposizione complessiva del portafoglio azionario è resa variabile dall’impiego di contratti futures su indici azionari.
Contrariamente a quanto si pensi, un contesto di inflazione non comporta necessariamente una gestione obbligazionaria sottotono. Le inversioni di tendenza dell’inflazione rappresentano momenti molto importanti, che spianano la strada a forti movimenti sui mercati obbligazionari. Una strategia obbligazionaria attiva, basata sulla ciclicità dell’economia, consente di implementare strategie in grado di contribuire alla performance dei Fondi in ogni segmento dei mercati obbligazionari.
In una fase di mercato in cui si prevede un’inversione di tendenza al ribasso dell’inflazione, vengono attuate strategie sull’impennata delle curve dei rendimenti (aumento del differenziale tra rendimenti a lungo termine e rendimenti a breve termine). Vengono adottate in concomitanza con strategie più direzionali, volte a beneficiare degli effetti diretti del previsto calo dei rendimenti obbligazionari, investendo in obbligazioni.
Al contrario, la previsione di inversione di tendenza al rialzo dell’inflazione indurrà ad adottare strategie sull’appiattimento o sull’inversione della curva dei rendimenti, attraverso le quali si ha una convergenza tra i rendimenti a lungo termine e quelli a breve termine, con addirittura un’intersezione al ribasso.
Le obbligazioni corporate registrano inoltre una volatilità elevata in prossimità dei punti di flesso dell’inflazione. La loro duration modificata originaria è tuttavia relativa all’attività economica che consente, o meno, il rimborso delle obbligazioni. Il recente rialzo dei tassi di interesse e la previsione di un netto rallentamento economico spingono i rendimenti di questi titoli a livelli molto interessanti, grazie all’ampliamento degli spread (aumento del rischio percepito).
La gestione obbligazionaria attiva resta sicuramente una componente importante della gestione diversificata in un contesto inflazionistico. Prevedere un periodo prolungato di inflazione non è necessariamente sinonimo di un mercato obbligazionario capace solo di provocare perdite nei portafogli. Ciò comporta una gestione attiva della componente obbligazionaria, che può apportare un contributo significativo alla performance positiva dei portafogli.