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50 sfumature di nero

Gennaio 2019

Data di pubblicazione
11 gennaio 2019
Tempo di lettura
6 minuto/i di lettura

La nostra interpretazione dei mercati per l’anno che sta per iniziare è invariata rispetto alla sintesi fornita nella Carmignac’s Note dello scorso dicembre “ 2019, ovvero l’esito della collisione”. A titolo informativo, si rammentava che « il modello di collisione (tra i tre cicli economico, monetario e politico) non sarebbe decaduto con il cambiamento dell’anno solare ». Giustificava di conseguenza il mantenimento di « una sostanziale forte prudenza », prevedendo al contempo la comparsa di diversi effetti di ritorno « da non lasciarsi sfuggire ».

Infatti i mercati sono abituati a registrare forti oscillazioni in base alle tendenze passando, con stati d’animo spesso influenzati da comportamenti gregari, dall’esitazione all’esagerazione o dal rifiuto alla speranza.
Da questo punto di vista l’inizio dell’anno fornisce un buon esempio di come una tendenza di fondo ancora poco definita, giustificata da fondamentali economici e monetari che continuano a deteriorarsi, possa nascondere delle sfumature nel corso del suo sviluppo. Tali movimenti intermedi possono anche risultare abbastanza importanti da essere colti da una gestione attiva, a patto che non si perda di vista l’obiettivo.

Il rallentamento economico globale si è sincronizzato e ha trovato conferma

Proprio all’inizio del 2019, anche gli economisti più ottimisti devono finalmente riconoscere che il fenomeno del rallentamento congiunturale è qualcosa di generalizzato: a dicembre l’indice PMI globale di J.P. Morgan è calato di 0,5 punti attestandosi a 51,5, e tutte le principali aree geografiche mondiali stanno contribuendo a questo rallentamento. Infatti pur restando elevato in termini assoluti, l’indice ISM manifatturiero statunitense del mese di dicembre è fortemente crollato da 59,3 a 54,1, mentre lo stesso indice per l’attività dei servizi è calato da 60,7 a 57,6. In Cina, dopo aver continuato a registrare flessioni da un anno a questa parte per attestarsi alla fine al di sotto del livello 50 (49,7), l’indice PMI Markit-Caixin ha confermato l’ingresso degli indicatori dell’attività manifatturiera del paese nell’area di recessione. Parallelamente, l’indice PMI manifatturiero della Germania ha anch’esso confermato il calo su dodici mesi, attestandosi a fine anno a 51,5, dopo avere iniziato l’anno a 63,3. In Europa questa tendenza ha trovato conferma in Francia, dove le proteste dei “gilet gialli” hanno contribuito al crollo dello stesso indice manifatturiero sotto la soglia dei 50 (49,7), e in Italia, dove l’indice PMI ha continuato a indicare una recessione (49,2).

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Fonte: 12/2018, il % degli intervistati si aspetta un rafforzamento dell’economia. Sondaggio condotto da BofA Merrill Lynch Global Fund Manager Survey.

Le politiche di stimoli disponibili sono molto limitate

In Europa è difficile che nel beve termine la Banca Centrale Europea possa intervenire in soccorso della crescita, proprio nel momento in cui ha appena portato a termine il piano di acquisto titoli. Per quanto riguarda il gettito fiscale, non sono ovviamente gli scostamenti più o meno significativi, ormai già previsti in Italia e in Francia, che ne aumenteranno il volume.

Anche in Cina i margini di manovra del governo sono ridotti. Quest’ultimo ha sicuramente già adottato una serie di misure a sostegno dell’attività, tra cui recentemente un forte abbassamento dei tassi sulle riserve obbligatorie degli istituti di credito. Tuttavia le restrizioni all’adozione di maggiori stimoli sono diventate molto significative. Infatti attualmente la priorità dichiarata è quella di sgonfiare la bolla del credito (va rammentato che ad oggi il rapporto debito/PIL del paese si attesta al 270%). Inoltre la Cina non dispone più di surplus delle partite correnti. Di conseguenza uno squilibrio di bilancio eccessivo non solo sarebbe contraddittorio rispetto alla volontà strategica di ridurre gli squilibri, ma innescherebbe rapidamente anche delle pressioni sulla valuta, e ciò aumenterebbe immediatamente le divergenze con l’amministrazione Trump nelle trattative sui dazi doganali.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la cessazione dei colloqui tra Donald Trump e la nuova maggioranza democratica al Congresso sta già portando a una situazione di stallo nel finanziamento delle spese operative ordinarie del governo federale. L’unica speranza resta quindi quella dell’allentamento della politica monetaria della Fed.

La Fed può tornare a stimolare i mercati?

In un’intervista del 4 gennaio il Presidente della Fed, Jay Powell, ha rilasciato dichiarazioni a sorpresa. Nonostante i dati sull’occupazione negli Stati Uniti confermassero una straordinaria resilienza dell’economia statunitense, che ovviamente avrebbe giustificato una posizione fiduciosa e inflessibile, Powell ha cambiato le dichiarazioni del 19 dicembre in modo significativo. In particolare, invece di presentare la riduzione del bilancio della Fed come un processo ben avviato e non negoziabile, si è dimostrato disponibile a variarne il ritmo. Più in generale ha fatto riferimento all’impatto dei rischi di mercato sulla correttezza della propria analisi della politica monetaria. Ciò è bastato ai mercati per trovarvi un’analogia con l’inizio del 2016, peraltro non smentita da Powell , quando la Fed di fronte all’inasprimento delle condizioni finanziarie, a sua volta alimentato dalla debolezza dei mercati, aveva alla fine abbassato gli obiettivi di stretta monetaria contribuendo così a un forte rimbalzo dei mercati.

Inoltre, se questo ritorno alla “flessibilità” da parte della Fed di fronte all’andamento dei mercati dovesse combinarsi con alcuni prossimi progressi nelle trattative commerciali tra l’Amministrazione Trump e la Cina, il forte calo registrato dai mercati azionari alla fine dello scorso anno potrebbe consentire un rimbalzo di una certa portata. Va ricordato, ad esempio, che soltanto nell’ultimo trimestre del 2018 l’indice Euro Stoxx e l’indice statunitense S&P 500 hanno perso tra il 12% e il 15%.

Il Presidente della Fed, Jay Powell, ha fatto riferimento all’eventualità di dimostrare flessibilità, che è una cosa importante, ma non si è impegnato in tal senso

Si deve pertanto prevedere un’inversione di tendenza duratura dei mercati?

Innanzitutto Jay Powell ha fatto riferimento all’eventualità di dimostrare flessibilità, ma non si è impegnato in tal senso. Inoltre non è sembrato affatto convinto del fatto che la riduzione del bilancio della Fed avesse contribuito all’instabilità dei mercati. In secondo luogo, negli Stati Uniti gli indicatori economici, come ad esempio l’ISM, sono i primi a essere influenzati dall’orientamento dei mercati. Se questi ultimi registrano un rimbalzo, contribuiranno a stabilizzare i primi, eliminando de facto uno dei fattori che potrebbero giustificare un allentamento monetario. Infine nel quadro di controllo della Fed si continua a registrare una situazione di piena occupazione negli Stati Uniti e un tasso d’inflazione del 2%, in linea con gli obiettivi dello statuto, che al momento non giustificano alcuna “resa” della politica monetaria. Allo stesso tempo, la tensione sul mercato del lavoro sta iniziando a erodere i margini delle imprese attraverso l’aumento graduale dei salari, che lascia presagire prospettive deludenti in termini di risultati nel contesto di rallentamento economico di cui abbiamo parlato.

Per concludere, esiste la possibilità di un rimbalzo “tecnico” dei mercati, che in base alle circostanze politiche delle prossime settimane potrebbe anche assumere una portata degna di nota. I titoli ciclici di qualità, che talvolta negli ultimi mesi hanno registrato crolli delle quotazioni azionarie, sono sicuramente meglio esposti a questi effetti di ritorno.

Le attuali previsioni di crescita dei risultati delle aziende, pari a +8% nel 2019, rischiano di essere riviste al ribasso. È troppo presto per prevedere una vera e propria svolta monetaria

Le problematiche sostanziali non sono invece risolte. Il 2019 inizia con l’eventuale proseguimento della revisione al ribasso dei risultati stimati per le imprese, in Europa così come negli Stati Uniti. Anziché aspettarsi ancora una crescita di circa l’8% dei risultati, è verosimile che la realtà sia piuttosto un calo assoluto dei risultati rispetto al 2018, attraverso l’erosione dei fatturati e la flessione dei margini. A questo proposito, i risultati e i commenti presto disponibili per l’ultimo trimestre del 2018 forniranno utili spunti di riflessione. Allo stesso tempo, la Federal Reserve statunitense non si trova ancora in condizioni di dover rinunciare al proprio obiettivo di normalizzazione monetaria, e al momento attuale la BCE è ampiamente a corto di contromisure. Una svolta monetaria potrebbe registrarsi nel corso dell’anno, ma saranno necessarie maggiori pressioni da parte dei mercati o dell’economia reale. Di conseguenza, anche se confermato, il rimbalzo che attualmente i mercati stanno avviando dovrebbe essere solo temporaneo, e non si tratta ancora dell’inversione di tendenza iniziata quasi un anno fa. Potrà essere necessario saper approfittare di questo movimento improvviso per prendere profitti.

Fonte: Bloomberg, 31/12/2018

Strategia di investimento
Azioni

Nel 2018, i mercati azionari si sono brutalmente adeguati allo scontro tra i tre cicli economico, monetario e politico. Nel mese di dicembre si è registrata un’accelerazione di questo movimento, che rispecchia un deterioramento delle aspettative sui risultati delle imprese per il 2019. Si dovrebbero continuare ad avvertire gli effetti di questa collisione quanto meno nel primo semestre del 2019, con una conseguente pressione al ribasso, ma non lineare, dei mercati azionari.

In questo contesto, manteniamo investimenti concentrati in titoli growth interessanti, sia da un punto di vista finanziario che delle valutazioni. Abbiamo quindi continuato a ridurre l’esposizione ai titoli a crescita eccessiva, in particolare appartenenti al segmento dei software. La loro valutazione elevata, dopo anni di performance positiva in un contesto di miglioramento dei fondamentali, ci pare rischiosa nella situazione attuale. Le nostre forti convinzioni sono controbilanciate da un livello di liquidità significativo. Tale liquidità ci lascia la possibilità di approfittare di punti d’ingresso interessanti. È ad esempio ciò che è accaduto all’inizio dell’anno al colosso cinese del commercio online, JD.com, secondo operatore del settore dopo Alibaba, che ha registrato un dimezzamento della quotazione azionaria in meno di un anno, nonostante la qualità dei suoi fondamentali e performance commerciali molto vicine alle aspettative.

Nel complesso questa pressione al ribasso sui mercati azionari sta determinando una serie di posizionamenti tecnici sull’eccesso di ribasso, spingendoci a gestire il tasso di esposizione azionaria in modo flessibile e mantenendo al contempo una struttura di portafoglio ancora prudente.

Nel corso del mese di dicembre i titoli obbligazionari rifugio hanno registrato la migliore performance mensile dell’anno, con gli investitori che hanno cercato protezione negli asset ritenuti di qualità in un contesto di maggiore incertezza riguardo allo stato di salute dell’economia globale.

I mercati del credito continuano invece a essere penalizzati, in particolare nel caso della categoria high yield, a seguito del forte calo registrato dai mercati azionari. Il rischio insito nella nostra componente creditizia è stato ridotto preventivamente.

Continuiamo a gestire la duration modificata complessiva in modo attivo. Quest’ultima è stata aumentata recentemente, data la volatilità dei mercati azionari e il rallentamento economico che ha colpito i paesi europei e la Cina. Inoltre, restiamo molto combattuti circa l’andamento dei rendimenti dei Treasury statunitensi. Infatti nonostante la Fed abbia variato la propria modalità di comunicazione, l’economia del paese continua a essere dinamica e per il momento l’istituto non si permette di ridimensionare la riduzione del proprio bilancio (che dall’ottobre scorso sta riassorbendo mensilmente 50 miliardi di dollari in liquidità). Manteniamo quindi la prudenza nei confronti delle obbligazioni statunitensi, e privilegiamo il debito asiatico ed europeo.

In questo contesto di rallentamento dell’economia globale, la nostra esposizione agli asset emergenti resta contenuta nonostante le valutazioni siano interessanti in alcuni settori, poiché preferiamo aspettare che queste economie si stabilizzino e che ci siano progressi concreti nelle trattative commerciali tra l’amministrazione Trump e quella di Xi Jinping.

Nel corso di tutto il trimestre le due principali valute, euro e dollaro, hanno fluttuato all’interno di un intervallo ristretto. All’interno del portafoglio continuiamo a privilegiare l’euro e in misura minore lo yen, nell’ambito della gestione del rischio del portafoglio, a discapito del biglietto verde.

Infatti il dollaro continua a essere penalizzato da un disavanzo crescente delle partite correnti e dai primi segni di rallentamento della crescita statunitense. I segnali di flessibilità recentemente inviati dalla Fed vanno anch’essi in questa direzione. Le valute emergenti continuano nel frattempo a rappresentare un’asset class piuttosto vulnerabile, in un contesto di rallentamento globale e di sgonfiamento della bolla di liquidità avviato dalla Federal Reserve statunitense.

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