Ottobre 2018
Oggi è difficile negare che l’enorme aumento della liquidità globale immessa dalle Banche Centrali a partire dal 2009 abbia registrato la sua ultima marea di equinozio (apice) nel 2017. Dall’inizio del 2018, le prime ondate di riflusso (abbassamento) che si sono manifestate (attraverso la stretta monetaria della Fed) hanno iniziato a soffocare i soggetti più deboli, soprattutto momentaneamente nell’universo emergente (si veda la Carmignac’s Note di luglio, “Collisione”). Se la marea ha appena iniziato a ritirarsi dopo la fase di alta marea, quali saranno i suoi effetti sui mercati azionari e obbligazionari nei prossimi mesi e trimestri?
Le dichiarazioni delle Banche Centrali non lasciano attualmente spazio ad ambiguità: il contesto di liquidità globale continuerà a indebolirsi fino a registrare un’effettiva inversione di tendenza a partire dal prossimo anno.
La Fed sta già riducendo la quantità di liquidità in dollari messa a disposizione del sistema finanziario. Si è passati dall’allentamento “all’inasprimento quantitativo”. A partire dal mese di ottobre questa riduzione mensile, che è stata di 40 miliardi di dollari al mese dall’inizio dell’anno, passerà a 50 miliardi. Questa diminuzione si aggiunge all’inasprimento monetario, progressivo ma inesorabile, rappresentato dall’aumento dei tassi di riferimento, confermato dal Presidente della Fed Jay Powell alla fine di settembre. A tale proposito, è importante sottolineare che ad oggi il calo della liquidità non sta affatto penalizzando l’economia statunitense. Infatti la generosa politica fiscale dell’amministrazione Trump rappresenta un fattore che alimenta la crescita in modo significativo, e che in combinazione con la stretta monetaria esercita un’azione simile a quella di un “aspiratore” di dollari a livello globale, facendo soccombere i paesi che ne dipendono (come l’Argentina), ma mantenendo negli Stati Uniti condizioni finanziarie ancora molto favorevoli.
In Europa anche se il rialzo dei tassi di riferimento non è previsto prima della prossima estate, la conclusione del quantitative easing è invece fissata irrevocabilmente per la fine dell’anno. Ciò significa che la BCE porrà sicuramente fine, come è sua intenzione, al piano di acquisto dei titoli governativi dell’Eurozona. Questa inversione di tendenza costituirà senza dubbio un contesto radicalmente nuovo, in particolare per i paesi che dipendono fortemente dalla fiducia degli investitori per finanziare il loro disavanzo di bilancio. Il caso dell’Italia dovrà in tal senso essere attentamente monitorato: senza la sicurezza offerta dagli acquisti massicci e costanti da parte della BCE, a quale livello di tasso d’interesse le emissioni del Tesoro italiano troveranno dei sottoscrittori? Ovviamente il problema sarebbe particolarmente scottante qualora il nuovo governo dovesse decidere di confermare uno scostamento dal rigore di bilancio, che porterebbe il tasso di indebitamento su un percorso a lungo termine ritenuto insostenibile dagli investitori e dalle agenzie di rating.
In Giappone, a settembre il governatore della Banca Centrale ha confermato il proseguimento di una lenta riduzione degli acquisti mensili di titoli governativi. Sicuramente l’inflazione resta bassa, e la Bank of Japan deve ancora agire con enorme prudenza. Tuttavia il rendimento dei titoli governativi giapponesi, appena superiore allo 0,10% a dieci anni, si avvicina ancora notevolmente ai minimi storici registrati per breve tempo nel 2016 e sta provocando effetti collaterali ormai deleteri su tutto il settore finanziario.
Il primo shock esogeno è rappresentato dall’intensificarsi della posizione protezionistica dell’Amministrazione Trump, di cui il cambiamento di regime ha accentuato le ricadute sui mercati, predendo di mira prevalentemente, anche se non esclusivamente, la Cina. Queste ricadute sono destinate a perdurare?
Tentare di prevenire il futuro a breve termine conseguente a questo atteggiamento è al momento un tentativo molto incerto, se non totalmente illusorio. Il protagonista principale, Donald Trump, è in grado di farlo? Tuttavia nel medio periodo, l’istituzione di un presunto nazionalismo economico pare essere una vera e propria inversione di tendenza. Dopo aver rifiutato totalmente l’idea di libero scambio come modello ideale per la regolamentazione del commercio mondiale per tutti gli operatori di mercato, l’amministrazione Trump sostiene che quest’ultimo sia invece fondamentalmente un gioco a somma zero tra vincitori e vinti. Si tratta quindi di rinegoziare tutti gli accordi commerciali, al fine di reintrodurre in modo più determinante il concetto dell’equilibrio di potere per poter uscirne vincitore.
Questa visione neo-mercantilista del commercio mondiale è sempre stata ovviamente l’opzione preferita dalle nazioni potenti, in posizione di forza per imporre condizioni commerciali a loro favorevoli. In altre parole, proprio come la politica monetaria della Fed ha l’effetto di attrarre capitali offshore negli Stati Uniti, il protezionismo commerciale dell’amministrazione Trump punta a sfruttare la crescita del resto del mondo a beneficio dell’economia statunitense. Non c’è quindi da meravigliarsi se attualmente gli investitori scommettano sul mercato statunitense prima che su qualsiasi altro mercato, così come non c’è da stupirsi che questo approccio sia fonte di grandi tensioni. Infine, bisogna rendersi conto del fatto che il governo degli Stati Uniti ha capito, sicuramente a ragione, che la Cina è diventata il suo principale rivale a lungo termine a livello economico, geopolitico e ideologico. La Cina potrebbe facilmente mostrarsi più indulgente di fronte a molte esigenze immediate di apertura del proprio mercato, ma ha capito perfettamente che non esiste una sfida decisiva.
Per gli investitori, queste tensioni creano puntualmente fasi di panico, che rappresentano comunque opportunità di investimento a buon mercato (si veda la Nota di settembre relativa alle opportunità nel settore tecnologico cinese). Tuttavia le tensioni tra Cina e Stati Uniti potrebbero protrarsi ben oltre le scadenze a breve termine della politica interna statunitense, diventando una componente nuova e duratura del contesto sui mercati.
Ci chiediamo se l’aumento del protezionismo possa rivelarsi favorevole all’economia statunitense. Nulla è più incerto.
È innegabile che la globalizzazione economica sia stata una benedizione per i margini delle grandi aziende, grazie all’ottimizzazione delle catene di distribuzione. Tuttavia è altrettanto innegabile che abbia giovato molto meno al potere di acquisto dei lavoratori dipendenti. Ecco perché attualmente il nazionalismo economico raccoglie l’ampio consenso del popolo americano, e rimarrà tale in occasione della prossima alternanza politica. Ci chiediamo se l’aumento del protezionismo possa rivelarsi favorevole all’economia statunitense. Nulla è più incerto.
L’istituzione di barriere doganali, qualora diventasse una realtà, renderebbe le importazioni di molti prodotti cinesi, forse a breve anche giapponesi o tedeschi, meno competitivi. Tuttavia, non potendo produrre prodotti che sostituiscano quelli importati in quantità sufficienti e a basso costo, al momento l’industria statunitense non sarebbe in grado di trarne grandi vantaggi. Infatti, l’industria americana sta operando alla massima capacità produttiva, e sarebbe prematuro investire pesantemente in nuove capacità finché non si conoscerà l’esito delle trattative commerciali sul lungo periodo. In gran parte il protezionismo avrebbe quindi ripercussioni sul consumatore statunitense, che si troverebbe a dover pagare di più o a consumare meno. Ciò in un caso alimenterebbe l’aumento dei prezzi, nell’altro indebolirebbe la crescita. Quindi paradossalmente l’attuale posizione di forza dell’economia statunitense non rappresenta un vantaggio così efficace. È addirittura possibile che il protezionismo mirato possa consentire ad alcuni paesi (Vietnam, Messico?) di infiltrarsi attraverso la rete di sicurezza e di riuscire a raggiungere il consumatore statunitense, fino a quel momento inaccessibile, con alcune linee di prodotti. I vincitori potrebbero non essere dove Donald Trump li sta aspettando.
Per quanto riguarda la Cina, grazie alla continua crescita della domanda interna come quota del PIL (attualmente l’economia cinese non registra più surplus delle partite correnti), l’impatto dei dazi doganali sulla crescita non dovrebbe essere sopravvalutato. Inoltre l’opzione di un sostegno monetario, fiscale e bancario a favore dell’economia resta al vaglio, anche se si è ridotta. Tuttavia un rallentamento, benché controllato, sarà difficilmente evitabile. Pertanto, mentre è possibile mettere in discussione i vantaggi della globalizzazione, è molto probabile che il protezionismo distribuisca i suoi danni in modo molto più omogeneo. In qualità di investitori giungiamo quindi alla conclusione che l’orizzonte della crescita globale si stia offuscando, e a livello microeconomico sia necessario prestare attenzione alle aziende e ai titoli vulnerabili e individuare inoltre quei settori e quelle imprese che, grazie al loro posizionamento e a qualità specifiche, riusciranno a evitare di diventare vittime collaterali di queste tensioni.
Negli Stati Uniti, l’inflazione ha superato la fase di ripresa iniziale. Pare che i mercati obbligazionari stiano ancora nutrendo dubbi a riguardo.
Al momento gli asset rifugio tradizionali, come i titoli governativi statunitensi o tedeschi, sono favoriti dalle crescenti incertezze politiche, a aprtire dall’universo emergente fino all’Italia. Tuttavia, come ribadito in precedenza, il percorso intrapreso globalmente verso la normalizzazione monetaria sta invece producendo forti reazioni in direzione di rendimenti più elevati, che dovrebbero rispecchiare maggiormente una crescita economica accettabile e le fasi iniziali di ripresa dell’inflazione. Nel caso degli Stati Uniti i rendimenti dei titoli governativi sono già aumentati, dato che l’inflazione ha superato la fase di ripresa iniziale e la crescita statunitense si sta ormai quasi surriscaldando. Pare che i mercati obbligazionari stiano ancora nutrendo dubbi a riguardo.
In Germania, le dinamiche economiche stanno sicuramente mostrando segni di rallentamento, che ovviamente penalizzano i mercati azionari europei, ma rimangono comunque sufficienti per ritenere che i rendimenti dei titoli governativi possano rimanere ancora a un livello eccessivamente basso, incompatibile con la prospettiva di conclusione definitiva degli acquisti di obbligazioni da parte della BCE alla fine dell’anno. Di conseguenza a breve termine il rischio pare abbastanza asimmetrico: tranne che nel caso di previsione di un’improvvisa ondata di avversione al rischio (in particolare qualora gli eventi in Italia e in Turchia dovessero precipitare, cosa che non può essere esclusa), il rendimento dei titoli rifugio, negli Stati Uniti così come in Germania, presenta un rischio di forte slittamento.
A medio termine, invece, il rallentamento del ciclo economico, il persistere di pressioni deflazionistiche strutturali (aspetti demografici, “amazonificazione” a livello globale, eccessivo indebitamento) potrebbero anche essere accompagnati da un aumento dell’avversione al rischio e da un calo delle aspettative di inflazione. Ciò metterebbe in discussione, a partire dal 2019, l’obiettivo di normalizzazione delle politiche delle Banche Centrali, penalizzerebbe duramente i mercati azionari, e spingerebbe nuovamente al ribasso i rendimenti dei titoli governativi. Una condotta molto intelligente e tattica nella gestione dei rischi azionari e della duration modificata sui tassi d’interesse diventa quindi necessaria come presupposto della gestione attiva nei prossimi trimestri.
Il nuovo regime di liquidità che caratterizza il 2018 presenta come principale implicazione quella di amplificare l’effetto degli shock esogeni, intensificando quindi il processo di convergenza delle performance, sia a livello geografico che settoriale. Questa polarizzazione costituirà il nuovo contesto di mercato in futuro, rendendo necessaria una drastica selettività da parte degli investitori. Il tempo della gestione passiva è terminato.
Fonte: Bloomberg, Federalreserve.gov, 28/09/2018