Dopo aver registrato un ciclo di apprezzamento pluriennale, il dollaro si è trovato ad affrontare una serie crescente di fattori, che potrebbero spingerlo oltre il punto critico. Pertanto, i movimenti di mercato delle ultime otto settimane meritano una certa attenzione.
Il dollaro è anch’esso molto sensibile alla propensione al rischio, e le sue ripercussioni a livello globale lo rendono uno strumento di gestione particolarmente complesso
La disparità nella gestione dell’epidemia, così come l’eterogeneità delle strategie di bilancio comportano ritardi nella ripresa dei vari blocchi economici.
Gli Stati Uniti si sono particolarmente distinti in tutti questi ambiti, con il 60% della popolazione adulta vaccinata fino ad oggi, una ripresa economica molto forte e massicci sostegni monetari e fiscali. Tuttavia, dalla fine del primo trimestre i tassi d’interesse nominali sono rimasti abbastanza stabili in questo paese, i mercati azionari hanno rallentato il ritmo di apprezzamento e il dollaro si è deprezzato, tornando ai livelli di inizio anno. Questo apparente paradosso non dovrebbe sorprendere.
Le pubblicazioni dei dati macroeconomici statunitensi, ma anche quelle delle imprese, paiono confermare un forte rimbalzo1. Inoltre, i progetti in bilancio dell’Amministrazione Biden, per circa 6.000 miliardi di dollari di spesa per il 2022, lasciano presagire che l’economia statunitense possa continuare a crescere in modo sostenuto anche dopo questo anno di ripresa.
Un tale fenomeno di forte crescita economica, in termini assoluti e rispetto al resto del mondo, tende ad associarsi a una performance molto positiva della valuta; tuttavia il dollaro ha ampiamente azzerato l’apprezzamento registrato nel primo trimestre.
Ciò è dovuto al fatto che spesso la volontà del Presidente è diversa da ciò che alla fine2 viene approvato dal Congresso; tuttavia la sua propensione per la ridistribuzione a livello sociale (e quindi per i consumi) rispetto agli investimenti delle imprese lascia presagire un rendimento sul capitale inferiore a quanto registrato in passato, e quindi un’attrattiva inferiore per gli asset denominati in dollari.
Nelle ultime settimane, la Federal Reserve ha riconfermato il mantenimento della politica accomodante. Ha ripreso il controllo sui mercati, che pensavano di indurla forzatamente a inasprire la propria posizione3. A dimostrazione di questa rinnovata credibilità, i mercati obbligazionari hanno reagito solo marginalmente alle ultime pubblicazioni relative al tasso di inflazione4, prestando fede allo scenario della Fed, secondo il quale il contesto inflazionistico è transitorio, o quanto meno rinviando le tempistiche in vista del simposio di Jackson Hole in estate come potenziale occasione per un eventuale dibattito sulla possibilità di rallentamento degli acquisti di asset (che a sua volta sarebbe indicativo di un ciclo di rialzo dei tassi d’interesse da avviare un anno dopo).
Il contesto attuale fa anche sì che ogni Banca Centrale possa condurre politiche diverse da quelle delle sue omologhe. La Federal Reserve ha adottato un atteggiamento paziente, persino attendista, e sta lasciando mano libera alle Banche Centrali inglese, canadese e norvegese nell’applicazione di una politica monetaria più restrittiva.
Questa nuova modalità di reazione della Fed, che consiste nel lasciare correre l’inflazione prima di intervenire, ha un impatto sul dollaro statunitense.
Bisogna tenere presente che l’inflazione erode il valore temporale di una valuta (con l’aumento dei prezzi, un dollaro ad oggi consente di acquistare più beni e servizi rispetto a quanto consentirà di fare domani), e quindi la domanda di dollari. Inoltre dalla fine del sistema a cambio aureo, avvenuta nel 1971, il principale sostengo delle valute è la fiducia riposta nelle rispettive Banche Centrali. La nomina di Janet Yellen al governo mette ulteriormente in discussione la completa indipendenza della Fed, che finanziando una parte del budget record degli Stati Uniti potrebbe alimentare le perplessità di più di una persona. La parte restante dovrà essere parzialmente coperta da aumenti di tasse e imposte. Inoltre, il deterioramento delle partite correnti favorirà più i consumi che non gli investimenti, esercitando pressione su una valuta resa fragile dall’aumento dei disavanzi gemelli, generalmente associato all’indebolimento della valuta, e da un differenziale di tasso di cui la crisi ha ampiamente ridotto il vantaggio che per lungo tempo ha favorito gli Stati Uniti.
A meno che non si tratti dello spettro ben più preoccupante della “stagflazione”, termine composto introdotto al tramonto dei tempi d’oro delle politiche keynesiane a metà degli anni ’60, quando la liberalità di bilancio e la connivenza monetaria erano consentite (qualsiasi analogia con gli eventi recenti è ovviamente casuale…). È indubbio che i dati sul mercato del lavoro negli Stati Uniti5 potrebbero alimentare questi timori. Risultati inferiori alle aspettative6 , questo insuccesso è probabilmente dovuto alle misure di sostegno eccezionale, che al momento paiono scoraggiare alcune persone a tornare a cercare lavoro. Questa situazione potrebbe indurre ad aumentare i salari per attrarre un maggior numero di candidati nel mondo del lavoro, senza tuttavia essere indicativa di maggiore solidità economica (l’aumento dei salari è uno degli aspetti chiave che potrebbe alimentare il perdurare dell’inflazione, oltre a riaccendere i timori relativi al ciclo salari/prezzi). Le politiche monetarie, come quelle fiscali, non sono le più efficaci per uscire da questo tipo di situazione. Il paradosso è legato al fatto che stimolare la crescita tende ad alimentare l’inflazione, e viceversa il rigore che punta a contenere l’inflazione penalizza l’economia. Ciò lo rende un cocktail molto sgradevole per la valuta dell’economia coinvolta.
Questi fattori rappresentano tutti forze contrapposte che dovrebbero incidere negativamente sul dollaro a medio termine.
Le strategie valutarie hanno qualcosa di speciale poiché operativamente sono combinate, e identificare l’altra metà è sempre difficile.
Mentre l’Europa è stata maggiormente colpita dalla crisi, e gli stimoli sono stati nettamente inferiori, quest’area geografica è diventata più appetibile agli occhi degli investitori internazionali grazie al rafforzamento della cooperazione politica, ma anche a un universo di titoli particolarmente esposti alla ripresa7 . Era da molto tempo che non si registrava la sovraperformance dei titoli azionari europei rispetto agli omologhi statunitensi, senza penalizzazioni legate all’apprezzamento dell’euro. Questo fenomeno potrebbe proseguire, tanto più che le aspettative di inflazione europee sono aumentate8 ma restano molto lontane dall’obiettivo della BCE (contrariamente a quelle statunitensi), e potrebbero continuare a beneficiare di dinamiche di crescita relativamente più favorevoli, grazie alla ripartenza appena avviata.
Per giunta, in primavera si è registrato un brusco aumento dei tassi d’interesse europei; i mercati si sono spinti al punto da prevedere un inasprimento monetario nei prossimi due anni ed eventuali annunci relativi al rallentamento del piano straordinario di acquisto titoli. Riteniamo che ciò sia prematuro. In questa fase, l’inflazione è un fenomeno prevalentemente statunitense, e sia le tempistiche che le prossime dichiarazioni dei membri della BCE dovrebbero essere accomodanti. Inoltre, i tassi d’interesse europei potrebbero registrare una battuta d’arresto.
La Cina ha gestito la pandemia in modo decisamente migliore rispetto agli Stati Uniti, ma l’interesse che suscita è dovuto anche al miglioramento delle prospettive economiche e tecnologiche a lungo termine che caratterizzano quest’area geografica. Ha investito, e continua a farlo, nelle tecnologie del futuro. Lo yuan cinese si è nettamente apprezzato, grazie alle notizie economiche positive ma anche al rifugio offerto dai tassi d’interesse cinesi in un contesto di scarsità di rendimento. Inoltre, le autorità di Pechino appaiono al momento particolarmente tolleranti nei confronti di questo movimento; infatti, l’apprezzamento dello yuan rappresenta uno strumento efficace per contrastare un’eventuale importazione dell’inflazione statunitense alimentata dalla Fed. Peraltro, dovrebbero mantenere una politica accomodante al fine di contenere l’eccessivo apprezzamento della valuta rispetto al calo del dollaro, il che sosterrà i mercati azionari e obbligazionari cinesi. Lo svantaggio principale risiede nelle tensioni latenti con gli Stati Uniti, che possono rappresentare un fattore di turbolenza.
I prezzi delle materie prime sono tornati ai livelli di cinque anni fa, dando adito a speculazioni relative all’eventualità di un nuovo “superciclo”. Riteniamo rischioso esporci direttamente alle materie prime in un contesto di temporanea turbolenza sul fronte dell’offerta, di ordini effettuati a titolo precauzionale e di significativi posizionamenti speculativi; pertanto, sono molte le valute dei paesi esportatori di questi prodotti di base, così utili per la ripresa dell’attività economica e per i piani di stimoli “green”, che si trovano in fase di stallo.
È probabile che gli investitori siano ancora traumatizzati dal taper tantrum, che nel 2013 aveva fatto registrato deflussi dai paesi emergenti, ancora fragili, a seguito degli annunci di normalizzazione della politica monetaria della Fed e dei conseguenti aumenti dei tassi.
Tuttavia attualmente la situazione è molto diversa, con le Banche Centrali che hanno conquistato credibilità e, contrariamente al 2013, sono molti i paesi che registrano surplus delle partite correnti. È quindi possibile prevedere che i paesi che presentano fondamentali solidi e Banche Centrali rigorose registrino un apprezzamento delle loro valute. Siamo quindi esposti, in modo selettivo, alle valute di questi paesi produttori di materie prime.
La nostra struttura di portafoglio resta equilibrata tra convinzioni a lungo termine e a breve termine. Il vantaggio della desincronizzazione è che consente la diversificazione.
Il calo del dollaro non è in contrasto con il rialzo dei tassi
Questi driver di performance sono integrati da strutture portanti significative di coperture strategiche. Come illustrato nelle nostre ultime “Note”, il rischio di tasso d’interesse ne è il pilastro principale, e come analizzato in dettaglio in questa “Note” il rischio di cambio ne rappresenta il secondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare intuitivamente, il calo del dollaro non è in contrasto con il rialzo dei tassi, e analogamente al rischio di tasso d’interesse, la gestione del rischio di cambio deve essere attiva. Il dollaro è anch’esso molto sensibile alla propensione al rischio (sia al rialzo che al ribasso), e le sue ripercussioni a livello globale lo rendono uno strumento di gestione particolarmente complesso e soggetto a movimenti di breve periodo.