Giugno 2018
Quasi dieci anni di interventi non convenzionali sui mercati finanziari da parte delle Banche Centrali hanno giustificato l’affermarsi dell’irrazionalità. Non era rilevante per investitori il ciclo di crescita economica, il tasso di inflazione, addirittura le valutazioni e la concentrazione dei rischi, poiché erano gli acquisti di titoli di Stato da parte delle Banche Centrali a incidere in modo determinante sul prezzo degli asset finanziari. Riducendo i tassi d’interesse deliberatamente e in modo programmato, l’intervento delle Banche Centrali aveva azzerato la volatilità, e attraverso la riduzione della spesa privata (effetto “crowding out”), aveva sostenuto la contrazione degli spread creditizi e l’apprezzamento dei mercati azionari. Non era nemmeno importante che il regime di rigore fiscale, imposto ai governi dopo la grande crisi finanziaria del 2008, facilitasse uno squilibrio in termini di distribuzione complessiva della ricchezza, fortemente a favore dei titolari di attività finanziarie anziché dei dipendenti. È noto come negli ultimi due anni questa divergenza abbia contribuito alla nascita di movimenti di contestazione politica, sia in Europa che negli Stati Uniti, che si oppongono al regime economico liberale e che esercitano pressione sui governi affinché allentino il rigore finanziario.
La recente sfida politica lanciata dai partiti anti establishment italiani al rigore dell’Unione Europea può quindi essere interpretata come una delle molteplici risonanze a livello locale della sindrome “America First”. Rappresenta già una fonte di stress per i mercati, che hanno accumulato un livello elevato di fragilità a causa di un consensus focalizzato sugli stessi rischi “sponsorizzati” dalle Banche Centrali. Tuttavia, per il momento la crescita economica globale resta soddisfacente, i risultati delle aziende invidiabili, e le politiche delle Banche Centrali continuano a essere molto accomodanti. Questo contesto continua a rappresentare un’ancora di salvezza per gli investitori.
Il test di solidità dei mercati in termini reali – e allo stesso tempo delle gestioni attive – avrà luogo con il venir meno del sostegno dei fattori economici e monetari. Tuttavia i primi segnali di indebolimento del ciclo economico e della fretta delle Banche Centrali sono ormai tangibili. Il conto alla rovescia è iniziato.
Il problema italiano è indicativo di una fragilità più generalizzata dell’Eurozona
I principali indicatori economici pubblicati a maggio confermano le nostre indicazioni di imminente rallentamento della congiuntura di crescita globale, a cui avevamo accennato nella Carmignac’s Note di maggio “Sotto la furia, il ciclo economico”. Nonostante la riforma fiscale di Trump, negli Stati Uniti gli investimenti non decollano e il ritmo di crescita dei consumi ha iniziato a diminuire. Nell’Eurozona gli indicatori dell’attività economica, benché ancora a un buon livello, hanno tangibilmente smesso di crescere negli ultimi due mesi. La stessa cosa sta accadendo in Giappone.
Questa volta, l’indicazione di un’imminente fine del ciclo economico si presenta all’investitore con sintomi “tradizionali”, mai più registrati in quasi dieci anni di distorsioni operate sui mercati dalle Banche Centrali. Infatti, non solo i titoli di società cicliche, industriali e indebitate, hanno risentito di una sottoperformance significativa dall’inizio dell’anno, ma si sono manifestate anche le prime tensioni sui prezzi e le aspettative di inflazione sono state aumentate dagli economisti, quanto meno negli Stati Uniti, innescando tensione sui mercati obbligazionari.
Non è soltanto in materia di commercio estero e di geopolitica che gli Stati Uniti si prendono grandi libertà rispetto alle regole.
Gli obiettivi fiscali del Presidente Trump si accompagnano ovviamente a un forte aumento dei fabbisogni di finanziamento per lo Stato federale, proprio nel momento in cui la Federal Reserve sta cambiando rotta in termini di interventi, riducendo la dimensione del bilancio anziché aumentarlo acquistando obbligazioni del Tesoro statunitense, così come aveva fatto dal 2009 al 2015. Indubbiamente questa combinazione infelice gioca anche un ruolo non trascurabile sul rialzo dei tassi d’interesse statunitensi.
In Europa, invece, la Banca Centrale Europea ha fortemente continuato ad acquistare obbligazioni sovrane nonostante il miglioramento economico e, fattore fondamentale, il fatto che finora i paesi dell’Eurozona abbiano continuato ad adottare un atteggiamento virtuoso di riduzione dei disavanzi. Ciò ha fatto sì che i tassi d’interesse decennali in Germania raggiungessero il 2,5%, livello più basso rispetto agli Stati Uniti, e che, fino al fulmine politico a ciel sereno dell’Italia, proseguisse la forte convergenza dei tassi tra i paesi di quest’area geografica.
Dopo i timori sull’Eurozona insorti nel 2016 a seguito delle elezioni presidenziali statunitensi e del voto britannico sulla Brexit, l’elezione del Presidente Macron nel 2017 aveva quanto meno allentato le tensioni che tendevano a propagarsi all’interno dell’Eurozona. Infatti, essendo stato eletto grazie a un programma volto a riformare non solo l’economia francese, ma anche la governance europea, il Presidente francese offriva in extremis un’alternativa credibile alle incognite legate a un processo di involuzione.
A distanza di un anno, il progetto di un’uscita dall’euro non è più esplicitamente sostenuto da alcun partito, nemmeno da quelli indipendentisti, e le difficoltà che la Gran Bretagna sta affrontando nei negoziati sulla Brexit non incoraggiano a priori nessuna ambizione secessionistica. Inoltre, l’attività economica di tutti i paesi dell’Eurozona è attualmente sostenuta. Tuttavia le braci dei programmi di secessione ardono ancora. Ovunque l’opinione pubblica continua a essere ampiamente divisa, e una buona parte resta sensibile agli appelli che incitano a liberarsi dai vincoli del rigore fiscale, in un’ottica di migliore ripartizione della ricchezza ma anche in nome del “Il mio paese prima di tutto!”.
L’Eurozona è ancora lontana da un accordo condiviso sull’istituzione di regole di bilancio europee in grado di controbilanciare i vincoli imposti ai bilanci nazionali in occasione del prossimo rallentamento
Queste fonti di tensione sono particolarmente diffuse oggi in Italia, non solo a causa dell’instabilità cronica del sistema politico, ma anche a causa del tallone d’Achille strutturale rappresentato da un’economia costituita in gran parte da imprese di piccole dimensioni, il più delle volte sicuramente dinamiche, ma scarsamente attrezzate per investire nell’innovazione e nella produttività. In assenza di investimenti sufficienti negli ultimi vent’anni, scoraggiati anche dalla burocrazia normativa e dalla pressione fiscale, il livello medio dei redditi disponibili in Italia è attualmente ancora inferiore al livello pre-crisi, e le disuguaglianze sono rimaste particolarmente elevate.
Tuttavia il problema dell’Italia è indicativo di una fragilità più generalizzata dell’Eurozona. Grazie al sostegno offerto da una Banca Centrale molto protettiva, e negli ultimi tempi da una congiuntura economica positiva, alcune riforme strutturali sono state sicuramente intraprese – ad esempio dal 2011 in Italia, e molto più recentemente in Francia. Queste riforme non hanno comunque ancora reso le economie sufficientemente competitive, né hanno ridotto il debito statale. Di conseguenza, i margini di manovra fiscali continuano a essere molto modesti, e risulterebbero ancora fortemente insufficienti per contrastare attualmente un rallentamento economico. I mercati considererebbero un nuovo ricorso a misure di sostegno finanziario, volte a stabilizzare economie in fase di rallentamento, come un deterioramento problematico del grado di solvibilità.
Il recente evento italiano ha in qualche modo rammentato bruscamente che le obbligazioni sovrane dei paesi periferici possono rapidamente tornare a essere trattate alla stregua di obbligazioni corporate, dove l’analisi del rischio di credito diventa prioritaria rispetto ai rendimenti attesi dagli investitori. Questa vulnerabilità è avvalorata dalla constatazione che le riforme istituzionali dell’Unione Europea non sono state ancora portate a termine. L’Eurozona è ancora lontana da un accordo condiviso sull’istituzione di regole di bilancio europee in grado di controbilanciare i vincoli imposti ai bilanci nazionali in caso di necessità. Di conseguenza, un rallentamento economico in Europa in un prossimo futuro troverebbe pochi fattori di stabilizzazione sul proprio cammino, e le dinamiche di convergenza degli ultimi anni rischierebbero di arrestarsi rovinosamente di fronte alla realtà economica.
I prossimi mesi saranno quindi decisivi per l’asset allocation. È da molti anni che l’elaborazione di una diagnosi macroeconomica corretta non risultava così importante per una gestione attiva.
Fonte: Bloomberg, 31/05/2018