Luglio 2018
Dopo essere state per anni artefici dei destini economici dei paesi sviluppati, e ancora di più dei mercati finanziari, è evidente che le Banche Centrali hanno per lo più concluso i loro interventi. Ciò vale in particolare per la Banca Centrale statunitense, che invece di continuare a immettere liquidità nel sistema economico ha ormai iniziato ad assorbirla. Dopo aver indebolito l’intera struttura dei mercati, costruita in dieci anni di eccessiva abbondanza di liquidità, questa inversione di tendenza assume grande importanza per gli investitori. Tuttavia il venir meno del sostegno monetario favorisce anche la comparsa di altre due forze, fino a poco tempo prima censurate in modo schiacciante da politiche monetarie non convenzionali: il ciclo economico e le politiche di governo.
Per quanto riguarda il ciclo, per il momento i mercati si sono tranquillizzati godendo da due anni di una ripresa economica generalizzata, prolungata negli Stati Uniti dalla politica fiscale espansiva del Presidente Trump. Questo ciclo inizia a mostrare i primi segni di rallentamento (si veda la Carmignac’s Note di giugno 2018 “Conto alla rovescia”). Dal punto di vista politico, l’economia liberale e globalizzata degli ultimi anni, che ha alimentato l’aumento dei prezzi degli asset finanziari ma che ha apportato pochi benefici ai redditi dei lavoratori dipendenti, ha fatto emergere una forma di ribellione, negli Stati Uniti, in America Latina così come in Europa, volta a contestare l’ordine economico prestabilito. L’anno scorso avevamo accennato alla sfida a medio termine che questa nuova fase politica, per quanto esemplare, rappresentava per gli investitori (Carmignac’s Note di aprile 2017 “Gli investitori di lungo periodo dovrebbero diffidare del populismo”).
È questo antagonismo tra ciclo monetario, economico e politico che al momento rappresenta il rischio principale per i mercati, indipendentemente dal fatto che nel breve periodo questi si stiano focalizzando unicamente sulla componente politica.
Non bisogna considerare Donald Trump come un eroe omerico, guidato dal destino verso una guerra inesorabile che si concluderà solo con l’annientamento di uno dei protagonisti
L’attacco sferrato dagli Stati Uniti alla roccaforte commerciale cinese, insieme all’esaurimento della fonte mondiale di dollari, sta già mietendo le sue prime vittime. Il mercato azionario cinese ha perso il 15% del suo valore dall’inizio dell’anno e, per effetto contagio, gli asset finanziari dei paesi emergenti, in particolare le valute, hanno registrato un crollo. Le economie maggiormente dipendenti da finanziamenti esteri in dollari sono state ovviamente le più penalizzate, tra cui in primis l’Argentina, i cui progressi costanti ma ancora fragili compiuti grazie al piano di riforme, sono stati cancellati da una violenta raffica di sfiducia degli investitori. All’interno del governo statunitense vi sono attualmente personaggi influenti, sostenitori di una corrente ideologica, che senza mezzi termini dipingono la Cina come il nemico strategico, le cui dinamiche vanno represse.
Se con il pretesto di una violenta disputa sui dazi doganali l’intenzione degli Stati Uniti fosse di fatto quella di impedire alla Cina di attuare il suo piano strategico “Made in China 2025”, allora il conflitto sarebbe lungo e devastante. Il Presidente cinese Xi Jinping non è sicuramente disposto a rinunciare al progetto di continua ascesa della Cina alla catena di valore industriale globale. L’offensiva annunciata contro le importazioni di automobili tedesche rientra nella stessa strategia, e l’Unione Europea si è ritrovata unita di fronte alla posizione degli Stati Uniti. Tuttavia siamo certi che si debba considerare Donald Trump come una specie di eroe omerico, guidato dal destino verso une guerra inesorabile, che si concluderà solo con l’annientamento di uno dei protagonisti?
È invece assolutamente possibile che l’obiettivo americano sia pragmatico, politico e molto più a breve termine. Le elezioni di metà mandato del Congresso degli Stati Uniti, che si terranno il prossimo 6 novembre, rappresentano ovviamente un obiettivo di primaria importanza per Donald Trump, il cui Partito Repubblicano non è finora favorito nei sondaggi. Riuscire prima di questo voto decisivo a potersi vantare degli accordi con la Cina, ed eventualmente anche con l’Unione Europea, che sicuramente sarebbero presentati come vittorie straordinarie, sortirebbe un effetto migliore presso l’opinione pubblica statunitense. Una strategia d’investimento non dovrebbe quindi escludere l’opportunità di un epilogo razionale al momento giusto.
A tale proposito il dollaro, che attualmente beneficia di un’economia statunitense ancora dinamica, di un’avversione generalizzata al rischio e di una Banca Centrale che continua a essere determinata, potrebbe allo stesso tempo perdere importanza, con il contributo del rallentamento del ciclo, e l’allontanamento dello scenario peggiore potrebbe favorire la comparsa di livelli d’ingresso allettanti all’interno degli asset emergenti di qualità.
Nel breve periodo, la preoccupazione di salvaguardare il capitale in tutti gli scenari induce quindi alla massima cautela, ma con tutta la flessibilità e la reattività necessarie, considerato che al peggio non c’è mai fine.
Il vero e proprio rischio per i mercati europei resta quello congiunturale, a causa del venir meno dei fattori di stabilizzazione e della forte insufficienza di quelli di bilancio, in assenza di riforme
La protesta all’interno dell’area euro nei confronti di ciò che alternativamente viene percepito come una struttura inefficace, rigida, burocratica, ingiusta, perfino antidemocratica è in aumento. Tuttavia sono proprio le sue inadeguatezze a essere oggetto di una disaffezione crescente, e non la sua realtà. Le fasi di panico che occasionalmente si manifestano in concomitanza con le aspirazioni di fuoriuscita dall’Eurozona, espresse sporadicamente, non tengono conto di un aspetto fondamentale: ovunque l’opinione pubblica ha di fatto capito che il prezzo da pagare per tornare alla propria moneta originaria sarebbe proibitivo per qualunque paese.
Giustamente o erroneamente ad oggi l’euro è irreversibile, come anche Mario Draghi ha rammentato recentemente. La gestione operativa di tutta l’Unione Europea, invece, necessita urgentemente di riforme, onde evitare scossoni ricorrenti che finirebbero effettivamente per minarne la struttura. Il Presidente francese Emmanuel Macron l’ha capito, e anche la Cancelliera Angela Merkel, che potrebbe quindi utilizzare il suo ultimo mandato alla guida della Germania per promuovere questo movimento. Sul fronte economico, quest’ultima potrebbe ad esempio prendere l’iniziativa di riunire la sua coalizione attorno a un progetto di riforma fiscale, che sfrutterebbe una parte dei margini di manovra molto ampi di cui l’economia tedesca dispone.
Questa dimostrazione di leadership politica rappresenterebbe una soluzione credibile al rischio di rallentamento economico già evidente, e collocherebbe maggiormente il paese in una posizione di locomotiva della crescita europea, anziché continuare ad assumere principalmente il ruolo di rigido supervisore del rispetto del patto di stabilità di Maastricht. La CSU, partner conservatore della CDU, una volta ottenute le rassicurazioni ai suoi timori in materia di immigrazione potrebbe indubbiamente fornire il suo sostegno a un programma di riduzione della pressione fiscale. In occasione di ogni crisi europea, uno degli errori più frequenti degli osservatori anglosassoni è probabilmente quello di avere sottovalutato la volontà politica, che è in grado di trovare un accordo quando si tratta della sopravvivenza dell’Eurozona. Nel breve periodo, il vero rischio resta a nostro avviso quello legato al ciclo economico (si veda la Carmignac’s Note di giugno 2018 “Conto alla rovescia”), a causa del venir meno dei fattori di stabilizzazione monetari e della forte insufficienza di quelli di bilancio, in assenza di riforme.
Le minacce di protezionismo rappresentano ovviamente una fonte di angoscia per gran parte degli operatori economici. Tuttavia questo vale anche per gli Stati Uniti, dove la comunità imprenditoriale sta iniziando a sensibilizzare l’Amministrazione statunitense sui rischi di una simile politica. Paradossalmente, il fatto che il suo impatto diretto e immediato sulla crescita economica statunitense sia molto ridotto, aumenta il rischio di mantenimento di una posizione politica molto rigida nell’immediato. Attualmente le notizie che interessano i mercati sono soprattutto quelle politiche, e ciò riduce la visibilità e induce alla cautela. Tuttavia pressioni volte a ripristinare un equilibrio, in altre parole il buon senso, dovrebbero continuare a moltiplicarsi per raggiungere compromessi favorevoli.
Va rammentato che il rischio reale per i mercati è più complesso, e quindi meno temuto nel breve periodo: risiede nell’eventualità di una collisione tra queste politiche economiche destabilizzanti, in una congiuntura economica diventata vulnerabile e nell’esaurimento di contromisure da parte delle Banche Centrali.
Fonte: Bloomberg, Carmignac, 30/06/2018