Carmignac's Note
Inflazione: vietato essere compiacenti!
L’aspettativa di un ritorno duraturo dell’inflazione a circa il 2,5% è pura utopia
Il calo dell’inflazione negli Stati Uniti dallo scorso giugno ha innescato una forte ripresa dei mercati azionari negli ultimi mesi. Le aspettative di inflazione, così come è possibile dedurle dal prezzo delle obbligazioni indicizzate, lasciano intravedere una ripresa dell’aumento dei prezzi di quasi il 2,5% a partire dal mese di giugno, e di una successiva stabilizzazione a circa questo livello negli anni successivi. La prospettiva è quella di un ritorno duraturo ai mercati del decennio 2010, quando i rendimenti al netto dell’inflazione sostenevano ampiamente gli asset finanziari e immobiliari, ed erano facilmente replicabili dalle gestioni passive. Non crediamo a questo scenario di ritorno duraturo dell’inflazione a livelli bassi. Riteniamo, invece, che l’inflazione ci accompagnerà per molto tempo.
Aumentano i segnali che indicano l’ingresso delle economie avanzate in un fase inflazionistica del ciclo economico sul lungo periodo, durante la quale l’offerta non sempre riuscirà a tenere il passo con la domanda. Il rapido susseguirsi di periodi di crescita dell’inflazione, alimentata dalle pressioni strutturali, e di rallentamenti disinflazionistici, orchestrati dalle Banche Centrali, in questo contesto ripristina la ciclicità economica, che penalizza la gestione passiva e impone l’esigenza di tornare a focalizzarsi sulle tematiche che hanno risentito della scomparsa del ciclo economico.
Le nostre aspirazioni prima dell’efficienza economica
Oltre ai fattori strutturali legati a un contesto demografico che genera meno risparmi e a un’attività commerciale globale meno dinamica, già ampiamente illustrati nelle note precedenti, l’inflazione è alimentata, al momento e nei prossimi anni, da altri due fattori rilevanti e in grado di limitare l’offerta di beni e servizi:
la decarbonizzazione delle economie, che comporta un drastico calo degli investimenti nei combustibili fossili (e quindi la diminuzione strutturale delle riserve) e che determina l’aumento dei prezzi dell’energia;
la volontà, post pandemia, di cambiare stile di vita, che si concretizza in un rapporto diverso con il lavoro, caratterizzato dal desiderio di lavorare da casa e per meno tempo, o addirittura di cambiare lavoro, spesso per una posizione più lontana dai grandi centri urbani dove la carenza di manodopera è più accentuata.
Combustibili fossili a lungo prevalenti nel mix energetico globale
Mentre i dati differiscono, il consensus è concorde nell’affermare che, negli ultimi dieci anni, sono state investite diverse decine di migliaia di miliardi di dollari a favore della transizione energetica, ma che allo stesso tempo la quota di combustibili fossili nel mix dei consumi di energia a livello globale è diminuita soltanto di poco più di 1 punto, attestandosi all’81%.
La combinazione tra il drastico calo degli investimenti nei combustibili fossili e la stabilità di questi ultimi nel mix energetico globale racchiude in sé gli ingredienti di una crisi energetica della stessa portata di quella che ha contribuito all’ultima grande fase inflazionistica, dal 1965 al 1980, alimentata dallo shock petrolifero del 1973. L’OPEC ritiene, non a caso, che annualmente e fino al 2045 si dovrebbero investire 1.500 miliardi di dollari nello sviluppo dei combustibili fossili, rispetto ai 1.000 miliardi attuali, per garantire la sicurezza energetica.
La verità è probabilmente a metà strada tra questi due dati, ma non permettiamo che l’albero della guerra in Ucraina nasconda ai nostri occhi la foresta del deficit energetico strutturale, che stiamo aggravando ciecamente e senza discernimento, mentre la produzione di petrolio della Russia è diminuita soltanto del 2% rispetto al suo livello antecedente l’invasione dell’Ucraina.
Ma dove è finita la manodopera?
Allo stesso tempo, il profondo cambiamento del rapporto con il lavoro, che determina il calo delle ore lavorate, la diminuzione del numero di lavoratori e la mobilità molto elevata della manodopera, e quindi la perdita di produttività, rischia fortemente di portare anche a una mancanza di offerta sostenibile.
In tutto il mondo occidentale, il rapporto tra offerte di posti di lavoro e manodopera disponibile si sta avvicinando ai massimi storici: le imprese non riescono più ad assumere per far fronte a condizioni soddisfacenti alla domanda a cui vengono sottoposte. È quindi normale che si inizino a registrare conseguenti aumenti salariali. Ad esempio, nelle ultime settimane, Inditex (proprietaria soprattutto di Zara) ha annunciato aumenti salariali di oltre il 20% in Spagna, mentre il suo concorrente giapponese Uniqlo aveva effettuato aumenti dal 20% al 40% in Giappone.
Il consensus non crede in una lunga lotta all’inflazione
La mancanza di manodopera e il prezzo dell’energia, insieme al rialzo dei tassi di interesse, sono attualmente i motivi che meglio giustificano il rallentamento economico. Il rallentamento legato a un’offerta insufficiente è un fattore inflazionistico. La gestione delle contromisure monetarie diventa quindi più difficile. A tale proposito, è interessante notare come la serie di rialzi dei tassi di riferimento decisa dalla Federal Reserve, di portata e rapidità senza precedenti (475 punti base in dieci mesi), ad oggi sia accompagnata da un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti al livello minimo dal 1969.
La battaglia contro l’inflazione attuale sarà ovviamente vinta nel breve periodo, attraverso alcuni ulteriori aumenti dei tassi di interesse, che probabilmente innescheranno la recessione necessaria a indurre un calo più significativo dei prezzi, indebolendo i consumi, senza risolvere il problema legato al deficit dell’offerta. Ma le attuali aspirazioni socio-economiche lasciano intravedere una serie di ondate inflazionistiche, che preannunciano una lunga lotta all’inflazione a cui apparentemente il consensus non crede. La disponibilità ridotta di manodopera e l’aumento dei prezzi dell’energia, conseguenti a questi obiettivi, saranno solo sporadicamente contrastati dalle politiche monetarie e fiscali, considerato quanto la soglia del dolore nei paesi economicamente avanzati si sia abbassata. Le recessioni orchestrate dalle politiche economiche e monetarie per ridurre l’inflazione saranno quindi brevi e poco intense. L’inflazione diminuirà, ma ogni volta tornerà ad aumentare. La resilienza la sostiene.
Non bisogna temere l’inflazione; le opportunità che crea sono davvero tante!
La comprovata capacità della nostra gestione obbligazionaria nel trarre vantaggio dai rendimenti delle obbligazioni pubbliche e corporate in un contesto di tassi di interesse più alti, nell’individuare le situazioni asimmetriche nell’universo emergente, o nel gestire l’esposizione complessiva ai tassi di interesse, sia in termini positivi che negativi, rappresenta un importante punto di forza nel contesto economico illustrato.
Sui mercati azionari, la previsione di indebolimento dei tassi reali dovrebbe sostenere i mercati azionari. Questa prospettiva giustifica un’esposizione significativa all’oro. Per quanto riguarda la Cina, l’assenza di inflazione in questa fase le conferisce caratteristiche di forte diversificazione.
L’introduzione di una strategia inflazionistica all’interno della nostra gestione consente di sfruttare al meglio le numerose opportunità che il ciclo economico offrirà, fornendo al tempo stesso diversificazione all’interno della gestione patrimoniale. Cercheremo di farlo con forza e convinzione. Non dobbiamo temere l’inflazione; rendiamola nostra alleata!